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Consigli di scrittura in viaggio – Federico Pistone

Io viaggio quindi scrivo. Non sempre funziona così. Per raccontare un’esperienza, un itinerario, un Paese, un personaggio, anche soltanto una situazione non basta conoscere l’italiano e avere voglia di diffondere il “verbo”. Riceviamo tante proposte, tutte dignitose, ma sono veramente poche quelle destinate alla pubblicazione. Perché un libro non deve essere uno “sfogo” personale, una liturgia fine a se stessa: deve avvincere, avvolgere, turbare, sedurre, informare. Ma attenzione, è qui sta l’errore più comune, deve farlo con la semplicità e la forza delle parole, non con enfasi, esasperazioni, superlativi. Bisogna leggere molta letteratura prima di scrivere: Hemingway ha creato capolavori nella leggerezza più assoluta. E non occorre catapultarsi agli antipodi per avere “argomenti buoni”. Il tanto, forse troppo, decantato Chatwin ha realizzato il suo capolavoro (Sulla collina nera) senza muoversi da casa, descrivendo la vita e i ricordi all’interno del suo orizzonte. E poi, altro errore capitale, non pensate di essere così importanti, a chi legge interessa poco di voi, mentre è affamato di emozioni, di notizie. Polaris accoglierà volentieri le proposte di potenziali autori, le valuterà con attenzione e risponderà a tutti. Ma ci sono delle condizioni che chiediamo (e che i nostri lettori meritano): possono rivelarsi anche un aiuto, una guida, un consiglio a chi ha deciso di “scrivere per noi”, ma anche per altri. Seguiteci.

È mattino presto, sulla sponda del Nilo, a Luxor. All’orizzonte il cielo è ancora tinto di rosa, i monti di Tebe, rosei anch’essi, si specchiano rovesciati nel Nilo, immobile, liscio, simile a un lago. Ci sono il silenzio profondo dell’Egitto, la serenità funerea, da Campi Elisi, dell’Egitto; la pace e la dolcezza mortuarie dell’Egitto.

Una descrizione implacabile. Poche parole e siamo già dentro un luogo remoto di cui già cogliamo i colori, i suoni e i silenzi, gli sfondi, la dolcezza, la sofferenza. E abbiamo voglia di spingerci ancora di più in questo scenario di evocazioni d’oriente. È l’inizio del diario di Alberto Moravia da Luxor, annotato nel 1954 e pubblicato dall’Europeo il 21 febbraio di quell’anno e poi inserito nel volume “Viaggi” per i Classici Bompiani quarant’anni dopo. Moravia non ci tedia con dettagli storici, non vuole dimostrare di saperne più di noi, anzi ci racconta del suo viaggio in modo confidenziale, quasi partecipasse a un tour familiare. E lo fa con una semplicità e con una ironia di spessore letterario.

Ci precede la guida patentata a cui siamo stati affidati dall’agenzia turistica, un uomo di età incerta, forse anziano, con una gabbanella verde, con la testa involtata in un fazzolettone giallo. Il viso che sporge dal fazzoletto potrebbe anche essere di donna, tutto naso e labbra, con due grandi occhi neri e melliflui: una donna anziana, anzi una Befana, come se la rappresentano i bimbi in Italia, ma una Befana affaticata, che abbia già distribuito i suoi doni e che ora volentieri si riposerebbe. E infatti, appena la barca si stacca dalla riva, la nostra Befana-guida accende una sigaretta socchiudendo gli occhi e accavallando le gambe.
È un modo, quasi uno stratagemma, quello di Moravia, di alleviare la tensione del viaggio con il contrasto di un “tour operator” ante litteram asessuato e del tutto inadeguato, quasi volesse anticipare che nessuno gli darà informazioni e che il “turista” Alberto le dovrà raccogliere in autonomia, raccontandole di volta in volta al lettore. La leggerezza, l’ironia, la capacità di trasmettere emozioni. Non è necessario essere nati scrittori, ci si può applicare però, leggendo molto, mettendosi nei panni del lettore, eliminando eventuali tracce di oziose riflessioni personali. Ancora uno scenario africano, ma questa volta a scrivere è una coordinatrice (che chiameremo Irene) di un’importante agenzia turistica che decide, purtroppo, di narrarci il suo viaggio.


L’aereo è decollato all’una di notte alla volta di Addis Abeba. La notte l’ho passata a chiacchierare con un etiope che sapeva del mondo molto più di quanto io potessi immaginare. Ho anche dormito qualche mezz’oretta qua e là ma avevo caldo e i piedi in fiamme. Cavoli che calde quelle scarpe! All’aeroporto di Addis Abeba ho tolto i pantaloni di pile ed ho messo su quelli di cotone, poi ho bevuto un tè, senza limone, accidenti che triste il tè senza limone… Ma le scarpe leggere erano rimaste in valigia dunque i miei piedi hanno continuato a ribollire e così durante il volo fino a Nairobi. Non lo avevo considerato ma quel volo mi aveva portato al di là dell’Equatore.
È un resoconto come se ne leggono tanti, anche su testi che qualcuno ci invia pensando di essere il nuovo Barzini, junior o senior non importa. Niente di spaventoso, ma tutto beatamente inutile, a partire dai “cavoli” e dagli “accidenti”. L’ora del decollo, la chiacchierata con l’etiope (chi è? com’è? cosa fa? dove era diretto? perché? che cosa mai sapeva del mondo più di quanto Irene potesse immaginare?), il sonno a singhiozzo dell’autrice (quante sono quelle qualche mezzor’etta? Tre? Allora fa un’ora e mezzo, ma tutto sommato anche questo risulta poco emozionante), i piedi in fiamme, il cambio d’abito (un vero coup de teatre), le considerazioni esistenziali sul té intristito di nostalgia per il limone e, il vero gioiello: Irene non aveva considerato che quel volo l’avrebbe portata al di là dell’Equatore! Cioé nemmeno aveva dato un’occhiata alla carta geografica prima di partire. Speriamo abbia scoperto, con l’andare del viaggio, di essere nel continente africano. E una narratrice così – ed è solo un esempio, ce ne sono anche di più perfidi – cosa può raccontarci di interessante? Quali emozioni potrà mai generare nello sventurato lettore? Uno dei difetti più ricorrenti di chi scrive è proprio quello di partire allo sbaraglio, senza conoscere nulla dei luoghi e dei popoli che incontrerà, se non superficiali letture. Così il suo racconto si dipanerà in una meravigliata ignoranza che provocherà solo noia a chi legge, se mai qualcuno leggerà. Se non volete compilare una collezione di iperboli saccheggiando i sinonimi e contrari di Virgilio (avete notato che i grandi narratori evitano descrizioni con i superlativi? Un motivo ci sarà), è consigliabile dedicare prima del viaggio molto tempo e letture alla conoscenza della storia e dell’attualità del luogo o dei luoghi che andrete a visitare (wikipedia non vale, e non basta). Sarà anche il modo migliore per apprezzare e per collocare anche i più semplici dettagli in un contesto più significativo. Non ha senso visitare un tempio buddhista senza sapere cos’è il buddhismo, la sua storia, la sua spiritualità, la sua attualità, l’attecchimento in quel preciso Paese. Altrimenti ammirerete solo un bell’edificio e ascolterete dei monaci che intonano curiose cantilene. Siete liberissimi, ma non pretendete poi di interessare qualcuno quando lo racconterete. Fosco Maraini ci descrive il suo “Segreto Tibet” con una serie di informazioni vissute in prima persona ma già collaudate da possenti conoscenze frutto di studi, letture e precedenti viaggi.

I capelli lunghi sono normali per gli uomini del Tibet. Corti li portano soltanto i monaci della setta gialla, nonché alcuni “modernisti” lungo la carovaniera. I monaci della setta Kar-gyu aggiungono ai propri capelli naturali, lunghissimi, una sorta di turbante di capelli artificiali.
Spiegato questo, Maraini entra nel merito della sua esperienza personale.
Da due o tre giorni passeggia per Yatung un lama alto, glabro, misterioso, di questa setta. Gira di paese in paese; lontano, nel Tibet orientale, ha moglie e cinque figli, cosa che scandalizza enormemente un nostro amico, lama della sette Gialla Gelug-pa (“I virtuosi”). “Questi immorali, questi rilassati, questi fattucchieri…” esclama.
Com’è lontano l’etiope che sapeva tutto del mondo ma noi niente di lui. Se volete meritare il diritto di narrare le vostre avventure dovrete anche diventare i maggiori esperti di quel luogo o di quella cultura, o comunque provarci. Nessuno pretende di “scoprire” il nuovo Moravia, il nuovo Barzini, il nuovo Hemingway… Ma scrivere un libro, una guida, anche un breve racconto comporta una responsabilità immane. Lo stupore ci può stare, in certi punti genera pathos, ma non può essere tutto un racconto stupefatto altrimenti diventa una presa in giro. Perfino Alexander Dumas, quello che ha inchiodato generazioni alle pagine del Conte di Montecristo o dei Tre Moschettieri, non abusa di termini eccessivi per descrivere i luoghi devastati dal terremoto nel suo “Viaggio in Calabria” del 1842.

Niente può dare l’idea dell’aspetto di Castiglione. Non una delle case era rimasta intatta: la maggior parte era interamente crollata; alcune erano state inghiottite completamente; un tetto si trovava al livello del suolo e ci si camminava sopra; altre avevano fatto un giro su se stesse e tra esse ce n’era una la cui facciata, che prima volgeva ad oriente, si era girata verso il nord.   Una catastrofe vissuta in presa diretta da un grande narratore che non ha nessun bisogno di caricare l’evento. La tragicità sta nella descrizione, non nel commento. L’unico artificio è quello di utilizzare una raffica di immagini spaziate da un punto e virgola, per generare un ritmo serrato, quasi sincopato, come una serie di titoli di un telegiornale di oggi (ma è passato più di un secolo e mezzo). Anche Tiziano Terzani ha dovuto raccontare una tragedia in “presa diretta”: la morte di Hirohito, il leggendario imperatore del Giappone. Terzani, da grande giornalista e, soprattutto, da grande conoscitore dell’Oriente, non ci restituisce la cronaca stucchevole di un Paese in lutto, anzi ci sorprende raccontandoci la “storia vera”, vissuta di persona.

Tokyo, 7 gennaio 1989. La voce della cicogna s’è taciuta e la città è buia e silenziosa. A tratti non si sente nell’aria che lo sbattere delle bandiere: a mezz’asta quelle sui palazzi del centro, listate a lutto quelle fuori dei negozi chiusi e sulle porte di tantissime case. Le luci al neon dei grandi pannelli pubblicitari, dei cabaret e delle sale da gioco sono state spente, le musiche messe a tacere, ma la Tokyo che ha perso il suo dio imperatore, sul trono da 62 anni, appare, al calare dell’ultima notte dell’era Showa, stranamente avvolta più nell’indifferenza che nel dolore. Il lutto sembra più il frutto di una perfetta organizzazione che della spontaneità. La prima giornata del dopo Hirohito s’è svolta come secondo un piano meticolosamente previsto da tempo in ogni suo dettaglio.   Basta questo incipit di reportage per darci un torrente di informazioni: il raccoglimento “obbligato” di una città che è ormai diventata moderna (le luci al neon, i cabaret, le sale da gioco) e così lontana dai valori millenari che avevano fatto dell’imperatore un dio, in nome del quale tanti soldati nipponici si erano sacrificati nella Seconda Guerra Mondiale. Ci dice anche che il suo regno è durato 62 anni e che si conclude la dinastia Showa. La fotografia non è quella di un Paese smarrito nel dolore, come noi lettori occidentali ci saremmo aspettati, ma quella di un addio glaciale, laccato, quasi distratto. Ma vero, reale, dettagliato, sconcertante. Bisogna conoscere, ma anche riconoscere. Mettere a confronto, analizzare, avere l’onestà morale e intellettuale di non dire quello che il lettore attende, ma quello che è realmente, anche se può apparire “deludente”. Lo sapeva anche un inviato molto speciale: Francesco Petrarca, il grande poeta trecentesco che era anche un inquieto viaggiatore. Uno che traeva ispirazione per i suoi versi sublimi durante i suoi spostamenti: “Solo e pensoso i più deserti campi vo mesurando a passi tardi e lenti”: lo ha fatto attraverso l’Italia, dalla sua Arezzo a Bologna, Ferrara, Mantova, Milano, Roma, Napoli. E l’Europa: soprattutto Francia, regioni fiamminghe e Germania. Fittissimo il suo carteggio con il Papa e con le massime autorità religiose, raccolto nelle “Lettere da viaggio”, pubblicate da Sellerio editore Palermo e tratte dalle Lettere familiari e senili.  

Al Cardinale Giovanni Colonna: descrizione di un viaggio. Come sai, ho fatto da poco un viaggio in Francia, non per affari, ma solo per la voglia di conoscere e per quell’ansia che è propria della gioventù. Sono arrivato fino in Germania e sulle rive del Reno, sempre interessato ai costumi della gente, contento di vedere posti sconosciuti e di confrontarli coi nostri. Ma a dire la verità, anche se dappertutto ho visto cose magnifiche, non mi dispiace d’esser nato italiano; anzi, più viaggio e più cresce l’ammirazione per la mia terra.   Petrarca è un turista ante litteram, viaggia “solo per la voglia di conoscere”, e non ha nessuna intenzione di profondersi con il suo amico cardinale in descrizioni mirabolanti. Al contrario, pur riconoscendo l’interesse a persone e luoghi incontrati, ribadisce il suo attaccamento per la patria, di cui andare fiero e considerata, tutto sommato, più interessante. Anche se il talento di Petrarca si sublima nei versi, anche nei resoconti di viaggio. Intendiamoci, non c’è bisogno di essere Petrarca, nè Maraini, nè Chatwin per scrivere di viaggio. Perfino chi vi scrive ora ha pubblicato diversi libri, con la speranza di essere più incisivo e meno pedante possibile. Nel 2004 scrissi il racconto “Uomini renna”, frutto di una avventurosa spedizione fra gli Tsaatan della Mongolia. Decisi di evitare al lettore tutta la tiritera dei preparativi, le motivazioni, le mie “sofferenze” e altri dettagli gratuiti, così entrai subito nel vivo, senza preavviso:  

Dice di avere cinquantatré anni, ma il viso graffiato dal gelo e gli occhi velati dalla congiuntivite gli consegnano un fiero aspetto da ottantenne. Quando smonta da cavallo, Gombo è un mezzo uomo che si trascina a compasso sulle gambe arcuate, come un soldatino staccato dal supporto equestre. Appena si rimette in sella, torna a essere un animale mitologico, perfetto. Spalanca la bocca in una risata a tre denti, due in basso a destra, uno in alto a sinistra. Il cuoio rosso della faccia si tira fino quasi a spaccarsi.   Sarò riuscito a catturare subito il lettore e giocare di rendita, sulla fiducia? Una volta in un’intervista Raffaele La Capria mi disse: “Quando si scrive un libro tutto sta nell’incipit: deve essere assoluto, deve prendenderti per il collo e non mollarti più, deve prometterti grandi cose. Il problema poi è mantenerle”. Nel 2015 scrissi un reportage per il Corriere della Sera sulle Isole Far Oer, entrato poi anche nell’inserto della guida Polaris. Per raccontare questo affascinante arcipelago decisi allora di giocare sul contrasto tra i personaggi, caldi e gioviali, e l’atmosfera glaciale della natura, dando comunque delle informazioni. Venne fuori “A piedi nudi nell’Artico”.

Cominciava così:   The land of maybe, la battezza Magni Arge, presidente dell’Atlantic Airways, dopo aver buttato giù un bicchierino d’acquavite Lívsins Vatn e intonato un improbabile «Arrivederci Roma». «Quando stavo in I
talia, sul lago Maggiore, il clima era sempre lo stesso, sereno per una settimana, poi pioggia per giorni. Una noia». Per lui meglio le Fær Øer, la terra del forse, meno di cinquantamila abitanti e più di centomila pecore (Føroyar, alla locale, significa proprio arcipelago degli ovini) distribuiti su 18 isole nella corrente. Quella del Golfo che addolcisce il clima artico ma anche quella del vento che impedisce agli alberi di crescere ed escogita scenari sempre diversi con il cielo perennemente indeciso se dare via libera alla neve, oppure al sole pieno; nell’incertezza traccia arditi arcobaleni e disegna luci che trasfigurano il paesaggio verde velluto.
  Avrò, come dice La Capria, preso per il collo il lettore, “costringendolo” a proseguire nella lettura e magari, addirittura, a portarla a termine? Chi lo sa? Però almeno ci ho provato, ho seguito un’idea e l’ho messa in pratica. Ecco, amici lettori/scrittori, nessuno vuole insegnare niente, ma tutti dobbiamo imparare tanto, prima di decidere a raccontare le nostre esperienze agli altri. Dando per scontata la cosa più importante: saper scrivere in italiano. E possibilmente rendere uniforme la tecnica della scrittura.

a cura di Federico Pistone, autore Polaris e giornalista del Corriere della Sera