Un giorno lo smilzo Salsedine decise di attraversare tutta Venezia per andare a vedere i piccioni in piazza San Marco. Più che un giorno, una notte. Solo così si era preso la licenza di gironzolare solingo per quelle strade finalmente quiete senza il via vai di milioni di passanti. Gambe ossute sfreccianti in tutte le direzioni a prendere d’assalto la città più bella del mondo. La sua città. Era cresciuto lì e nulla mai gli aveva fatto venir voglia di andarsene, l’acqua alta, le passerelle, i disagi, l’umidità, nulla, nemmeno i reumatismi. Amava Venezia.
Mentre pensava a queste cose, si lasciava alle spalle il Ponte di Calatrava, Santa Lucia e subito imboccava la lunga ruga stretta tra le case quasi in un percorso obbligato, seguendo i cartelli con le indicazioni proprio come fosse uno di quei turisti che arriva lì per la prima volta per rimanere a bocca aperta al cospetto di tutta quella sospesa, galleggiante bellezza. La notte si sdilinquiva insieme ai contorni delle cose, case in lontananza. Le piazze con i pozzi e i pavimenti luccicavano d’umidità. Non ricordava tutti i nomi delle calli, anche se abitava lì da anni, a lui non importavano i nomi perché sapeva orientarsi sempre anche se ormai le sue passeggiate verso il centro erano più rare.
Una volta si era spinto fino alle Tre Zitelle, al di là della Giudecca, ma poi era stato complicato tornare indietro, perciò ora, come una vecchia signora, voleva andare e tornare senza inventarsi nulla di strano. Il suo incedere con passo leggero non faceva rumore. Solo passando davanti alla farmacia del Bruma, il suo amico, decise di tirare un fischio, a vedere che anche lui non fosse lì in giro, era da un pezzo che non lo incrociava. Una volta, con Spuma, erano un trio fenomenale, li conoscevano tutti quei tre, non passavano certo inosservati, così giovani, belli, pieni di vigore. Ora era tutto cambiato, si erano persi di vista anni prima, colpa di una baruffa dopo certi bagordi notturni e ci doveva essere di mezzo anche una femmina, ovviamente.
Da lì a poco, leggermente sconsolato, gli venne voglia di girare a destra per prendere una gondola in un angolino poco conosciuto e farsi magari portare sull’altra sponda a vedere come buttasse di là, ma che idee gli venivano di notte, così continuò. Fino a quando non gli venne in mente di svoltare per il vecchio ospedale, la Scuola Grande di San Marco, nel sestiere di Castello, così tanto per vedere qualcosa di bello. Allungava la strada, ma si sentiva in vena e non aveva fretta. Era tutto chiuso, nemmeno un’ombra in giro, di bere un goccio, anche solo appoggiato a un balcone, non se ne parlava. Solo stava e solo continuava. Passava i ponti, svoltava a destra, sinistra, ancora destra, nello stretto labirinto più bello che c’è, il sestiere che porta in piazza San Marco. Ancora qualche portico silenzioso, le vetrine dei negozi con le luci spente, poi passando sotto qualche arco e per le Mercerie sbucava finalmente sotto la torre dell’orologio, davanti alla Basilica. I lampioni si scioglievano nel pavimento, le luci sfocavano bagnate a bucare la foschia che Salsedine conosceva bene. Le file di gondole nere legate ai pali, laggiù oltre Palazzo Ducale, luccicavano come tanti scarafaggi bagnati.
Bruma, spuma, salsedine.
Un’occhiata di qua e una di là, la piazza era lì nella sua immutabile bellezza, ma di piccioni nemmeno l’ombra. Peccato. Gabbiani neppure, ma quelli inquietavano da sempre Salsedine perciò era meglio così. L’unica cosa da fare allora, con un po’ di amaro in bocca, era sedersi lì in mezzo e respirare tutta quella solitudine in libertà pensando che al massimo, se non fosse stato veneziano, gli sarebbe piaciuto essere parigino, forse perché aveva sentito dire che lì, quelli come lui, li chiamano chat noir. Gli sembrava suonasse bene e miagolò.
(foto di Micol Maia)