Hosteria Ludwig, ristorante Rossbach, ponte Walter Hopperdietzel. E ancora, l’Hosteria Alemana gestita dalla signora – forse è più corretto dire Frau – Ursula. Tutto ebbe origine nel 1935, quando quattro giovani coloni tedeschi, a seguito dell’esploratore Steffen, a sua volta incaricato dal governo cileno di esplorare una parte ancora sconosciuta del territorio, si stabilirono con le relative famiglie in questo angolo di mondo, allora ancor più remoto di oggi.
Il villaggio di Puerto Puyuhuapi sonnecchia tranquillo, placidamente adagiato in fondo al fiordo omonimo. La via maestra del paese coincide con un tratto della Carretera Austral, una lunghissima strada che attraversa la regione più remota del Cile e una delle meno abitate del pianeta. Già nei primi anni del 1900, scienziati e tecnici si concentrarono su studi e progetti per costruire strade che raggiungessero le comunità più isolate. Questi studi furono ripresi più tardi, quando il generale Pinochet decise che era giunto il momento di unire al resto del Paese la regione dell’Aysén, fino ad allora raggiungibile solo via mare o via terra dall’Argentina. E proprio il timore di rivendicazioni da parte degli odiati vicini aumentò la volontà di realizzare l’ambizioso progetto. Nel 1986 si inaugurò il primo tratto, da Puerto Montt a Chaytén, mentre solo negli anni successivi fu aperto il tratto che corre fino alla calotta glaciale, il Campo de Hielo Sur, che divide drasticamente in due parti la Patagonia e fa della Carretera Austral una strada senza uscita. Puerto Puyuhuapi si trova già a un terzo del cammino, ma è qui che ha inizio il mio viaggio lungo questa via affascinante e misteriosa.
La strada si lascia presto l’oceano alle spalle e, dopo pochi chilometri, un cartello per il ventisquero colgante spinge la mia curiosità a deviare per un sentiero. Oltrepasso un piccolo fiume tramite un ponte pedonale che si prolunga in un tracciato ben segnato. Poche centinaia di metri e si apre una laguna splendida, incorniciata dalle montagne. Incastonato tra le cime, come un vero diamante, il ventisquero colgante, il ghiacciaio sospeso, si nasconde timidamente dietro nuvole troppo basse. Un uomo sta ultimando la costruzione di un piccolo chiosco; immerso nella piena solitudine, sembra più disturbato che sorpreso dalla mia intrusione. L’imbarazzo è interrotto da un forte boato: un blocco enorme si stacca dal ghiacciaio e, infrangendosi sulle rocce sottostanti, si trasforma in una immensa cascata di ghiaccioli. Probabilmente, l’operaio era solo geloso di questo gioiello naturale e voleva averlo solo per sé.
La pista sterrata è piuttosto stretta e taglia il Parco Nazionale Queulat, così selvaggio da essere ancora in parte inesplorato. La foresta, quasi offesa dall’oltraggio dell’uomo, invade la strada ora con arbusti ora con foglie dall’ampio diametro. Una serie di tornanti mi avvicina alle vette innevate delle Ande. A differenza che nel resto del Cile, nell’Aysén i monti corrono a ridosso dell’oceano al punto che una moltitudine di essi, sommersi dalle acque, spuntano solo con la cima e formano quella miriade di isolotti che danno luogo alla regione dei canali.
Dopo 60 km di meraviglie, il Queulat termina e la via si allarga. Tra il nulla più assoluto, mi fa sorridere il cartello “zona urbana” che introduce a un modesto villaggio. Provo a contare gli edifici e non arrivo a venti. Naturalmente, comprese la chiesa, la scuola e l’immancabile caserma dei carabineros. Villa Ortega sembra trovarsi qui per caso, come se qualcuno ce l’avesse messa accidentalmente. Forse aveva ragione quell’uomo un po’ ubriaco quando confidò alla scrittrice Sara Wheeler che, “quando Dio creò il mondo, Gli avanzò una manciata di ogni cosa – montagne, deserti, laghi, ghiacciai – e se li mise in tasca. Ma nella tasca c’era un buco e mentre Dio camminava per il Paradiso a poco a poco cadde fuori tutto, lasciando una lunga scia sulla terra: il Cile”. Chissà, forse Villa Ortega era destinata a essere un sobborgo di Tokio, ma è rimasta incastrata nella tasca del Signore per poi precipitare tra queste montagne.
Se la regione dell’Aysén è il “deserto verde”, come l’aveva definita Charles Darwin durante la sua esplorazione, Coyhaique ne è l’oasi. Grande quanto non la immagini, si trova in una posizione splendida, circondata da bianche vette andine. La piazza della cittadina assume una forma pentagonale, assai strana per il Sud America. Sembra sia stata disegnata in questo modo da Hector Monreal, ispirato da un suo viaggio a Parigi. Una targa, alcuni sbiaditi documenti e una manciata di vecchie foto ricordano che il paese fu fondato il 12 ottobre 1929 col nome di Baquedano; dopo una decina di anni, per non creare confusione con l’omonima cittadina del nord, le fu dato il nome attuale che, nella lingua delle popolazioni indigene, significa “accampamento tra due fiumi”, il Simpson e il Mañihuales.
Il cartello di un particolare mirador ottiene lo stesso risultato di uno stop. Il rio Ibanez tocca un vasto bosco di alberi… senza vita! È una visione inquietante: tronchi ancora in piedi, senza rami né foglie, si affiancano l’un l’altro come se il loro ultimo atto fosse stato quello di unirsi per affrontare insieme l’atroce destino. Il destino aveva un nome, Hudson, quello del vulcano che 25 anni fa distrusse tutto ciò che lo circondava. La Natura, in questo caso, manifestò la propria forza ben due volte: la prima con la distruzione di ogni cosa, la seconda con la rinascita della vita e la cancellazione del disastro. Tranne questa moltitudione di alberi, ora conosciuti come el bosque muerto.
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