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La mattina dei fabbricanti di poemas

Ho visto poeti (serissimi e celebri) incamminarsi verso il centro del Parque Central de Granada, città del Nicaragua, e sedersi ad alcuni tavoli portati lì da dei ragazzi.
Li ho seguiti.

Raccontano che Josè Maria era un avvocato. Nessuno ci crede sul serio, ma è così. I poeti fanno mestieri imprevedibili: Josè Maria non è il solo avvocato che fa il poeta che conosco. A Genova conosco un poeta commercialista. Ce ne sono altri. Poi ci sono gli ingegneri che scrivono poesie. A frotte. La poesia, los poemas, come dicono in Nicaragua, come antidoto a mestieri troppo seri (e ci vuole qualcuno che li faccia).
Nel suo studio, Josè Maria aveva un piccolo cartello pubblicitario: “Se reparan poemas”. Si aggiustano poemi zoppicanti, si riavvitano parole consumate, si cambiano, si lavora con una matita sulle parole.
E ora Josè fa solo il poeta, guadagna a sufficienza, deve essere così. E dice: “È semplice. Basta avere un’idea, una matita e un foglio”. E lavorare molto. Lavorare molto, ripete. Scrivere è lavorare. “Ora mangio”, diceva Moravia dopo sei ore di lavoro al mattino. Come un contadino.

Josè, Alfredo e i loro amici del Costarica hanno ingaggiato poeti famosi. Li hanno convinti, dietro la promessa di compensi esagerati (poi non mantenuta, mai fidarsi dei poeti), a venire nel Parque Central di Granada. All’ombra degli alberi, con il rischio della cacca degli uccelli in testa. Hanno portato otto tavoli e un mucchio di fogli. E un barattolo di penne. Hanno appeso due cartelli su cartoncino celeste: poemas gratis, fabrica de poemas … E così, anche quest’anno, ha aperto la Fabbrica de los Poemas.

I poeti non hanno fatto in tempo a sedersi che subito, in cento, sono arrivati a chiedere poemas. Hanno fatto fila, atteso pazienti, chi ha esitato si è visto scavalcare da ‘clienti’ impazienti. Ho visto una ragazza aspettare fino alla fine, aveva timidezza e un bambino in culla. Ma poi ha avuto la miglior poeta della giornata: una bambina di sette anni ha scritto per lei.
Amanda e John hanno voluto dichiararsi il loro amore a due tavoli diversi. Poemas incrociati. In pubblico.
Salvador, poeta honduregno, è rimasto, sbang (dice lui), folgorato (sbang, sbang): la donna che si è seduta davanti a lui chiedeva un poema per il figlio. Che si droga e che lei vuole salvare. Salvador ha trovato parole, ma ho visto il sobbalzo nei suoi occhi. Ho visto il timore.

Il ragazzo deve averle provate tutte. Vuole un lavoro, non vuole ciondolare ai margini della piazza. E allora spera che una poesia possa servire qualcosa. Alfredo, poeta e teologo costaricense, esita, si ferma, si aggiusta sulla sedia. E scrive una poesia-talismano. Poi allaccia al polso del ragazzo una fettuccia Bonfin. Quando si romperà, arriverà il desiderio.
“La poesia deve essere utile”, spiega Josè.

Due donne catalane si mettono in prima fila a chiedere poesie e poi invitano i passanti a sedersi ai tavoli.
Los poemas sono gratis. Arrivano venditori di strada, ragazzi, impiegati di banca, mendicanti, serissimi uomini in cravatta, donne vestite di pizzo, giovani dall’aria bella, giovani handicappati, vecchi devastati, una venditrice appoggia sul tavolo il suo catino pieno di cibo. C’è un poema gratis per tutti. La poesia è nella piazza, allaccia la gente. Mi dice Alfredo: “Qui vediamo le parole. Le tocchiamo. Diventano reali. Le persone si confessano in pubblico, raccontano di loro. Non hanno altri luoghi per farlo. Lo fanno in pubblico. E la poesia dà una mano”. È grandiosa questa storia.

Berta, donna della piazza, vestito celeste, un gran sedere debordante, vuole un poema per Luis, il suo uomo. Da portare a casa. Come si scrive un poema d’amore? “Lo si domanda agli alberi”.
La poeta di Spagna, Maria Angeles, dice che non sa scrivere con questa velocità. Ma passa da un haikù a un poema lungo come la divina commedia per Jimena. Fra loro ridono come due bambine. Maria Angeles non sospetta di aver scritto un capolavoro. E lo dona alla giovane che se ne va felice. Ha impiegato almeno mezz’ora a scriverlo. Il capoturno della fabbrica l’ha guardata in malo modo, prima di sorridere con felicità.
Un bambino chiede un poema su “non so”.

Ilania, se ho capito bene il nome, ha sette anni e scrive poemas (bisnipote di un grande poeta nicaraguense, dna, si vede). Scrive con meraviglia: sull’amicizia, su sua madre, sull’amore. C’è la fila davanti a lei.
Sale poema, grida Josè. E Ilania viene fatta salire su un tavolo. Il poeta spagnolo vestito di bianco trova la sua voce e recita come un eccellente venditore di parole. Il poeta di Cuba, così erudito, si commuove e addolcisce le sue parole: sa come fare. Javier è un poeta migrante. Dice che è un pellegrino. Chiede un poema sulle sue migrazioni fra un paese e l’altro. E in cambio dà una sua poesia. Josè Domingo è un contadino di Jinotega e anche lui scambia poema per poema. Maria Angeles finalmente ha finito e legge cinque fogli di seguito ridendo come un uccello in volo.

C’è tempo per un ultimo poema. Alcuni sono rimasti senza il loro poema, un po’ di malinconia. La promessa di riaprire la fabbrica. La piazza avrebbe voglia di ballare. Donne e uomini tengono stretto il loro poema. Lo rileggono increduli, seduti su una panchina.

Testo e immagini della galleria sono stati pubblicati nel febbraio 2016 nel blog di Andrea Semplici

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