Era fin dal viaggio in Tibet di due anni addietro che stava prendendo forma l’idea di recarmi in Nepal. Nel percorso tibetano avevo rasentato i suoi confini e condiviso una cena con un gruppo di giovani sherpa, che mi avevano chiesto cosa sapevo del loro Paese. Già, cosa ne sapevo?
Sapevo che era la meta del viaggio per antonomasia, un insieme spirituale e spaziale incastonato tra l’ex Tibet orientale e l’India, “piano inclinato” che dalle più alte vette dell’Himàlaya del nord scivola nelle calde e umide pianure indiane del sud. Sapevo che era una ex appendice esotica dell’Inghilterra ma anche l’unico Paese dell’Asia meridionale a non essere mai entrato a far parte di alcun impero coloniale; che era stato crocevia di scambi commerciali e culturali e punto di incontro tra le culture delle popolazioni mongole dell’Asia, di lingua tibetano-birmana, e le popolazioni caucasiche delle pianure indiane, di lingua indoeuropea.
Sapevo che era una terra complessa, dove in 147 mila chilometri quadrati vivono ventotto milioni di abitanti divisi in centoventicinque gruppi etnici diversi, sparsi tra pianure, colline e montagne, che parlano centoventitre lingue e dialetti; che era un luogo di pacifica convivenza tra hindù, buddhisti, animisti, musulmani, sikh e cristiani. Terra di yak, sherpa, yeti e stupa, paradiso dei backpacker e dei trekker, ricco di arte e monumenti, di grandiosi complessi di culto permeati di profonda e autentica religiosità, patrimonio artistico e architettonico unico. Sapevo di Kathmandù, dei suoi templi, dei villaggi disseminati nelle valli, e non potevo non conoscere l’“epopea” della Freak Street, dei magic-bus e del libero amore, narrata nei tanti racconti dei superstiti della mitica Shangri-Là.
Era una terra che, assieme al Tibet, mi aveva sempre attratto per il suo alternarsi di re e regine, amori, matrimoni e incoronazioni, maharajà, principi bambini, mogli fedifraghe, primi ministri intriganti, famiglie e caste in lotta feroce fra loro. La sua storia recente vedeva il massacro della famiglia reale, un violentissimo conflitto armato interno, la fine di una monarchia secolare, il trionfo elettorale del Partito Comunista, il desiderio diffuso di emancipazione e giustizia sociale, la proclamazione della più giovane Repubblica del mondo.
Per tutto questo, e spinto da quelli che Jeff Grenwald definisce come “pruriti e pizzicori al ventre molle dell’inconscio”, sono partito. Alla ricerca di altre domande, sapendo in fondo ben poco di un posto dove non ero mai stato, e per un viaggio del quale avevo tracciato le percorrenze ma non i tempi. Un viaggio facile da programmare, ma difficile da immaginare.
Circa un mese dopo
Esco dall’albergo in Kantipath Road e scendo poi lungo una strada senza nome, in direzione della Durbar Square. Passo accanto agli incensi fumanti di un microscopico tempietto, uno dei tanti che sbucano nei posti più impensati, messi lì da gente comune che si dedica al proprio dio prima di una normale giornata di lavoro e si sente libera di cercare il rapporto col divino nei posti che ritiene più consoni. Il divino che è in ogni cosa, in ogni luogo e dentro l’uomo, come attesta la famosa parola hindi a valenza spirituale “namasté” (onoro il divino che è dentro di te), sempre pronunciata unendo i palmi delle mani con le dita rivolte verso l’alto, all’altezza del petto, del mento o della fronte, e facendo al contempo un leggero inchino col capo.
Attraverso lentamente Durbar Square, brulicante di gente che va e che viene, passo di fronte alle sue pagode, saluto Shiva e Parvati sempre alla finestra del loro tempio in un abbraccio malizioso, sfioro il Kumari Bahal, il palazzo dove vive, dai sette anni fino alla pubertà, la Kumari, la bambina venerata come una dea e, giunto all’imbocco della Ganga Path, svolto a destra sedendomi a un bar della Jochhne (Freak) Street poco lontana, in mezzo a gente che non mi appare estranea e a hippy reduci, con jeans e capelli bianchi, che vengono dritti da quarant’anni prima.
Chiedo, con un namasté diventato ormai istintivo, una birra Nepal Ice o Everest, possibilmente fredda. Mi piace sorseggiarla lentamente e stare a osservare la vita che mi scorre intorno, cercando di vederla da diverse angolazioni, provando a immaginare le storie che mi passano accanto e gustando quel senso di libertà che deriva dall’essere in posti dove non conosci nessuno, dei quali hai solo letto in libri altrui, così come ho fatto per buona parte del mio viaggio. Potrei rimanere qui per ore, mentre passa tutta l’umanità a colori: portatori con i loro pesantissimi pacchi, santoni itineranti, tuk-tuk, mendicanti, venditori di hashish o di balsamo di tigre, scimmie perplesse, moto sguaiate, bambini vestiti tutti uguali di ritorno dalla scuola, uomini e donne che si recano ai templi a pregare e lasciare le offerte alle divinità.
Finisco la mia birra e il mio namasté è già pronto a uscire per chiederne un’altra, accompagnata da un piatto di riso con lenticchie e verdure (dal bhat e tarkari) condite dall’immancabile curry. Mentre aspetto prendo dallo zaino le quattro moleskine con gli appunti scritti durante il viaggio, e zeppe di foglioline, biglietti ed etichette di birra: apro la prima e la stendo sul tavolo. Sì, sono tornato con molto da raccontare.
E, allora, che la storia cominci.
prologo di UNA BIRRA A KATHMANDÙ