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I volti della rinascita

“L’Africa Nera è come un labirinto di specchi:
devi fare attenzione a come ti muovi,
ma se trovi la strada giusta
ti può portare in paradiso.”

Finalmente giungo in Ruanda e mi ritrovo a Rulindo in compagnia di Katia, una giovane maestra valtellinese che con la sua spensieratezza rende le giornate man mano sempre più ricche di allegria, e della brigata meneghina composta da Dennis, Fra, Francesca, Claudio, Gianluca e Stefania.

Oggi è un gran giorno, la collina di Rulindo è in festa per l’inaugurazione dei primi giochi della gioventù del distretto. Una manifestazione fortemente voluta da Okapia, un’associazione no profit di Milano costituita da Dennis e Fra con l’ausilio ed il contributo di One, un caro amico ruandese, e della diocesi di Rulindo. Per l’occasione è coinvolta la maggior parte delle scolaresche del distretto, con adesioni a valanga di giovani promesse in diverse discipline sportive, tra le quali calcio, pallavolo, corsa campestre e pallamano. Maschi e femmine compongono le varie squadre con un unico intento: partecipare per vincere! La vittoria in sé non rappresenta la supremazia sull’altro, ma il raggiungimento del proprio scopo, la consapevolezza delle proprie capacità, dando il meglio di sé stessi sino all’estremo delle forze, allo sfinimento.

Osservo quei visi i cui occhi rappresentano l’esaltazione della forza profusa per ogni battito consumato, un avvicendarsi di espressioni tirate sino all’esasperazione, sia per la gioia che per lo sforzo. Non mancano le lotte fino all’ultimo centimetro o per l’ultimo e decisivo punto. Le contestazioni sono all’ordine del giorno. La posta in palio è alta: dimostrare il proprio valore.

L’arrivo in salita dopo una corsa estenuante, e per lunghi tratti difficoltosa, vede i ragazzi e le ragazze dare il loro meglio. Osservo gambe sanguinanti dopo chissà quale caduta e polvere ovunque manco avessero fatto la traversata del deserto del Tenerè. Al sopraggiungere di ogni corridore ferito o indolenzito accorro in soccorso con disinfettante, garze e cerotti. Tutta la gente mi circonda incuriosita. Mi ero organizzato come in un piccolo ma funzionale ospedale da campo. Katia forniva l’occorrenza ed io provvedevo al medicamento. Vedendoci così operosi ogni bambino ferito o presunto tale chiedeva una cura, anche chi l’ecchimosi l’aveva tatuata ormai da tempo. Gli stessi genitori li spingevano verso noi pur di farsi guardare.

La ragazzina vincitrice della sua categoria taglia stravolta il traguardo con scarpette da ballerina rigide come il cuoio seccato al sole ed i tendini delle caviglie che sembrano la leva del cambio della nostra auto. Le consiglio almeno un paio di giorni di assoluto riposo ma nel pomeriggio, dopo essere stata accompagnata nel suo villaggio distante svariati chilometri, la rivedrò camminare verso la collina, come se fosse passata dalla leva del cambio manuale a quello automatico. Un’altra ragazzina supera il traguardo a metà classifica, scalza e con le scarpe in mano per paura di rovinare l’unico paio rimastole. Paragono la mia corsa così brutale e nervina alla loro così morbida ed armoniosa. È così bello osservarle con quelle lunghe gambe, alcune robuste ed altre esili come zampe di fenicottero. Esprimono un ritmo, una musicalità, una leggerezza: un’opera d’arte.

Le partite di pallone così come le sfide a pallavolo sono commentate la sera a cena da Augustin, il seminarista della diocesi, con un tale ardore da creare un vero e proprio siparietto, con tanto di sigla di “tutto il calcio minuto per minuto” e lettura finale dei risultati di giornata.

Ma la partita più emozionante e vibrante rimane la sfida di pallamano tra disabili. La folla gremisce gli spalti e incita con vuvuzela entrambe le formazioni con un grande e immenso spirito di solidarietà che anima l’atmosfera. La pelle d’oca mi assale e cresce come uno tsunami, non riesco a contenerla. Mi sento trascinato dall’evento come uno di loro, pervaso da uno spirito libero e pieno di adrenalinaCon grande stupore ed ammirazione osservo la vita che brilla negli occhi di quei ragazzi senza arti inferiori, persi per non so quale tragedia, anche se lo posso intuire; la palla da spingere dall’altra parte della rete diventa una ragione d’orgoglio. Non vi sono né vinti né vincitori, solo uno schiaffo al passato con la forza d’animo di chi la vita non la vuole veder scorrere via bensì farne parte.

Tempo di ripartire, cambiare alla buona una gomma scoppiata lungo la strada e mi trovo a Nyamata a far visita alla cara e vecchia casa d’accoglienza per bambini orfani ed abbandonati della Comunità Abajambo. Subito una brutta notizia mi raggela ed un brivido freddo percorre il corpo paralizzandolo per un attimo. La suora responsabile della struttura mi comunica che, poco prima, una neonata di pochi mesi è deceduta dopo due giorni di febbre e sofferenze. La causa vera e propria non si conosce, né voglio saperlo. Ogni tentativo per salvarla è stato vano.

Questo viaggio non mi ha lasciato affatto indifferente di fronte a due facce della stessa moneta: la vita e la morte. La prima riempie la giornata con sorrisi e strette di mano, la seconda svuota l’animo e la mente. La prima è la consapevolezza di voler guardare solo la punta dell’iceberg, la seconda è la volontà di lasciare il resto immerso nella profondità. Ma, quando quest’ultima affiora, bisogna essere pronti ad accoglierla.