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Smarrirsi: quando lo smartphone sostituisce il destino

«Che cos’è una città? Le case? La luce? I cammini che si sono fatti come le linee del destino sul palmo di una mano? O la memoria che si ha delle emozioni avute? […] E tu dove hai la tua stella? In quale memoria trovi il tuo orientamento? Dove la tua sicurezza? A quale immagine di città ricorri quando vuoi sapere chi sei? Quando vuoi trovare la forza di sentirti diversa dal montare della marea altrui?». Così Tiziano Terzani in una lettera alla figlia (Un’idea di destino, Longanesi, 2014). Ora, nei nostri viaggi, sul palmo della mano più che il destino abbiamo uno smartphone, un telefono intelligente. L’immagine della città in esso contenuta stenta tuttavia a dirci chi siamo, e la marea altrui ci travolge altissima. Finiamo anzi per farne parte.

Il problema non sono cellulari e app di per sé, ci mancherebbe. Chi scrive ne ha fatto e fa uso in diverse fasi del viaggio. Il problema è che possono prendere il sopravvento e l’iperconnessione può snaturare il senso del partire. Non siamo educati alla tecnologia e non ne capiamo i rischi: cosa guadagniamo e cosa perdiamo. Non c’è un foglio illustrativo che menzioni tempo sprecato e solitudine, e che ci parli del senso di vuoto di arrivi in hotel con connessione immediata al wi-fi, invece di posare le valigie, affacciarci alla finestra e andare. Accogliamo esultanti ogni nuova connessione, ma è comunque su un piccolo schermo, magari acceso di notte: illumina gli sguardi spiritati di ragazzi nei letti a castello, in un ostello che ha gli spazi comuni semivuoti, birre che meriterebbero di essere stappate, amache da dondolare e linguaggi da esplorare.

Nell’ultimo “Album Viaggi” de «la Repubblica», nell’articolo Nessuna mappa né conoscenza, l’app ci guiderà, Marino Niola scrive: «Ormai non servono più né cartine né senso dell’orientamento, né esperienza né conoscenza, né organizzazione né preparazione». Non servono a cosa? Occorre metterci d’accordo sull’obiettivo del viaggio: se è muovere il nostro corpo in luogo altro, allora è vero, non servono a niente. Se invece è conoscere e rigenerarci, tutto ciò è ancora indispensabile. Altrimenti il viaggio diventa una specie di “Pokemon Go”, una realtà virtuale aumentata, dove inseguiamo, acchiappiamo e passiamo oltre. Una processione di gente accartocciata su uno smartphone e non un cammino che drizza la schiena, alza le antenne e spalanca gli occhi e le narici.

La pallina che si muove su una mappa disseminata di stelle sarà anche a volte utilissima, ma il rischio è di essere solo pedoni su una scacchiera di percorsi consigliati. È l’emozione della scoperta a venir meno, se non in forma di imitazione e di sentire obbligato: possiamo arrivare più velocemente possibile alla stella, certo, ma possiamo anche spegnere il cellulare, chiedere indicazioni in un negozio di alimentari, restare a parlare due ore di musica, uscire con una busta di caffè verde che non ci serve a niente. Possiamo starcene a guardare, sentire di perdere il tempo. Passare dalla sospensione all’azione, dal silenzio alla conversazione inattesa con i compagni di viaggio. Alzarci di scatto e fare una scelta indimenticabile. Trovarci a giocare a calcio in piazza con bambini colombiani, e segnare tre gol. Scoprire la musica portoghese da un vecchio juke-box. Fingere di essere assistenti di Tony Renis per poter entrare negli studios di Abbey Road (ma questa è un’altra storia).

Un luogo è molto più di un safari. È molto più di tre o quattro stelline di valutazione o di un hashtag. Persi tra reporter e blogger che dei loro viaggi sanno raccontarci solo un selfie e un sorriso smagliante, dimentichiamo di essere un paese di grandi raccontatori. Così Renzo Biasion in Sagapò (Einaudi, 2014): «Sulla passeggiata, nella parte della città rimasta intatta, tutto era come prima. Le donne camminavano allacciate ai loro amanti, reclinando la testa sulla loro spalla. Bambini, ignari, giocavano. Un vecchio seduto su una panchina fumava lento, assaporando con delizia ogni boccata di fumo. Le donne erano tanto belle, pulite, coi capelli lucidi, lunghi, abbandonati sulle spalle». Che cosa c’è in una passeggiata! Capiamo ancora che i bambini sono “ignari”, sentiamo anche noi la delizia del fumo lento? Cerchiamo donne belle solo in foto.

Propone Niola: «se poi sentiamo la mancanza delle persone che fanno parte del nostro quotidiano materiale e virtuale, c’è la possibilità di ricevere un alert […] che ci avverte se un conoscente, un amico o un nostro contatto è in giro negli stessi giorni e dalle stesse parti». Per amor di Dio! Non è meglio dimenticare per un po’ il nostro quotidiano (materiale e ancor di più virtuale), senza esserne prigionieri? Possiamo cambiare identità, in viaggio: ci rendiamo conto? Possiamo fingerci dj, scrittori maledetti. Possiamo tuffarci nel nuovo, e tornare un po’ nuovi anche noi, nel quotidiano.

E invece ci smarriamo smarriti, tra la gente che non sa smarrirsi.

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Un pensiero su “Smarrirsi: quando lo smartphone sostituisce il destino

  1. Corrado Passi dice:

    Ho letto attentamente l’articolo, che trovo molto stimolante ed interessante. A mio parere, l’ostacolo principale all’esperienza di un viaggio consapevole, ostacolo generato dalla nostra vita ormai iper-connessa – così oggi si descrive la dipendenza, quasi ossessiva, da qualsiasi dispositivo digitale portatile cosiddetto intelligente – è dato dal cambiamento, drastico ed inesorabile, del concetto di tempo. Non mi riferisco al tempo fisico – quello cronologico, misurabile in secondi, giorni o anni – ma al tempo psicologico, emotivo, quello che caratterizza la nostra vita più intima, le nostre emozioni, la sensazione di vivere: il tempo che la rivoluzione digitale ha alterato, comprimendolo costantemente in una corsa di inseguimento durante la quale il tempo fisico resta in assoluto vantaggio mentre noi, che siamo tempo emotivo, gregari trafelati, lo rincorriamo senza sosta. Viaggiare, che si tratti di una passeggiata con il cane nel giardino pubblico o di un itinerario alla scoperta dell’Africa Australe, dovrebbe comportare un cambiamento di prospettiva, la volontà di guardare ciò che ci circonda con occhi diversi. Tentiamo, per immobilizzare un momento del viaggio, o per renderne indimenticabile l’esperienza, di fissarne i momenti salienti nella nostra memoria – o, peggio in una memoria esterna – fotografando un volto, riprendendo una mareggiata, scrivendo qualche appunto sulle pagine di un diario, disegnando i profili di una collina o recuperando il profumo e l’aroma di un cibo. Sono operazioni ormai consuete, riti che non si risolvono semplicemente nell’atto di conservazione, di salvataggio; attraverso di essi tentiamo, a posteriori, un improbabile recupero di un tempo emotivo – quello contemporaneo alla fotografia, all’invio della stessa agli amici, quello della mareggiata e del volto, quello del cibo speziato – che non tornerà più. La realtà virtuale non è stata generata dall’industria digitale, ma esiste da millenni ed è connessa all’innata tendenza degli esseri umani a guardare oltre il paesaggio, a superare la barriera del reale, alla speranza di superare il confine visibile . Ed è questo l’impulso che dovrebbe muovere un viaggiatore, ed è questo il motore primo che induce in noi una forte sensazione di straniamento quando ci spostiamo mossi da curiosità – e ciò può accadere sia visitando le sale ipertecnologiche del MOMA, a NY, sia percorrendo un sentiero di montagna, sia risalendo alla luce dopo un percorso in metropolitana. Oggi, il rapporto con la contemporaneità è quasi inesistente: restare immobili ad osservare è improbabile, così come lo è l’atto del fermarsi ad ammirare, dello spaventarsi, della reazione emotiva: prevale, questa volta in termini fisici, quantitativi, la rincorsa del tempo “orologio”, del secondo in più o in meno a nostra disposizione per fissare, inviare, informare qualcuno, attraverso un digital device, di ciò che abbiamo appena scorto. Ci stiamo, sempre più frequentemente, subordinando alla coordinata topografica, alla geolocalizzazione esasperata, all’atto dell’invio e della ricezione di immagini e dati e, ciò facendo, perdiamo il rapporto con la conteporaneità, con il mondo di fronte o attorno a noi. Prima di partire sarebbe importante provare a trasformare il viaggio in una perturbazione radicale dei nostri ritmi quotidiani e delle nostre cadenze: non credo, personalmente, che ci si smarrisca perdendo una strada o non riconoscendo un luogo. Ci si può smarrire, al contrario, solo diluendo il più possibile il tempo fisico, quello dei minuti e dei giorni, e permettendo la risalita, lentamente, del tempo emotivo, quello che non ha bisogno di connessioni né di coordinate spaziali o geografiche per esistere e fissarsi nella nostra memoria.

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