Sì, vengo laggiù. Da te. Mondo alla fine del mondo. E non so cosa mi aspetta. – Luis Sepúlveda
L’AR1852B, partito dall’Aeroparque Jorge Newbery di Buenos Aires alle 9.40, vola ormai da quasi quattro ore verso sud, facendo scorrere sotto la carlinga una vuota Patagonia per lunghi tratti coperta dalle nuvole. Si cominciano a intravedere cime coperte di neve, viatico all’ingresso in Terra del Fuoco, nella quale entriamo non appena attraversato lo Stretto di Magellano, oggi non visibile. A un tratto l’aereo scende, bucando il materasso di nubi per infilarsi in mezzo a una tormenta di nevischio (quasi un avvertimento sull’inospitalità del clima australe) e, scosso dalle continue turbolenze dovute alle correnti fredde, atterra bruscamente su una pista nemmeno troppo lunga, che sembra appoggiarsi direttamente sul mare gelido. Bienvenidos all’Aeropuerto Internacional de Ushuaia Malvinas Argentinas, nell’Isla Grande de Tierra del Fuego, posta alle porte dell’antartide, nel finis terrae del continente americano e del pianeta, che separa l’oceano Atlantico dal Pacifico e che lo Stretto di Magellano separa a sua volta dalla Patagonia.
L’aeroporto, che si fregia del titolo di “aeroporto internazionale più meridionale del pianeta”, inaugurato nel 1995 dall’Armada Argentina e successivamente convertito all’uso civile con la costruzione dell’attuale moderna aerostazione in legno (che sembra un grosso chalet), è situato nella parte più a sud della Península de Ushuaia, delimitata dalle acque del Canale di Beagle, dalla Baia Golondrina a ovest e nord-ovest, dalla Baia di Ushuaia a est e nord-est, e a soli cinque chilometri dal centro della città. Fuori dal terminal il vento gelido e un turbinio di piccoli fiocchi di neve rendono il fatto di essere in piena estate australe un dettaglio di nessuna importanza. Sono quasi le venti e ancora non è notte. Qualche debole raggio di sole illumina la baia di una luce primordiale, di un affascinante color grigio-acciaio, e le luci distanti sono quelle della città più vicina al polo sud. La più vicina alla fine del mondo.
La “città più a Sud del mondo” mi circondava con le sparute case e le tremolanti luci. Ridevo felice. Di essere lì. In un presepe, all’estremo della Patagonia. – Bruce Chatwin
Un forte caffè, una fetta di dulce de leche, e, in un clima rigido (4°C e un forte vento da ovest) e avvolto dal silenzio australe, mi avvio a piedi verso il centro. Fin dalla periferia è evidente lo sviluppo disordinato avuto da Ushuaia nel corso degli anni, che rimarca lo stile di una città di frontiera battuta dai venti, ora abitata da sudamericani, sopravvissuti indigeni (i tratti somatici indios sono evidenti in molti degli abitanti) e gente proveniente da ogni parte del mondo che si è stabilita all’“estremo punto di arrivo”.
La visione di Ushuaia, a questa distanza, è abbagliante. Il sole riflette sulle centinaia di tetti, in lamiera di zinco e fortemente spioventi, delle case, disposte a scacchiera nelle cuadras che degradano dolcemente verso il porto, dove scorrono le uniche strade in piano. Ovunque spiccano i diversi e vivaci colori delle case, che volgono all’azzurro, giallo, verde, rosso ruggine, blu cobalto, dovuti alla tradizione che consentiva ai marinai di riconoscere la propria nell’avvicinarsi al porto. Alle spalle della città la massiccia sagoma conica del monte Olivia, imponente massa scura che sovrasta la baia e contrasta con l’allegria delle case multicolore, che sembra quasi spingere Ushuaia verso il mare. Benvenuti ne “La baia che penetra a ovest”, dove anche l’ovest fa parte dell’estremo sud.
Sono le 23, il vento si è fatto più forte, portando con sé sparuti fiocchi di neve, e la luce tiepida della notte australe illumina il canale (l’alba sarà alle 3). Scrive in merito Francisco Coloane: “Era metà dicembre e in quel periodo e a quelle latitudini la notte è quasi inesistente; i giorni si mordono la coda, dato che il crepuscolo comincia a stendere pennellate d’ombra quando ormai il lattiginoso chiarore dell’aurora successiva viene a stemperarle”. Fatico ad addormentarmi, ripetendomi sempre la stessa domanda alla quale anche Chatwin era incapace di rispondere: “Che ci faccio qui?”. Già, che ci faccio qui, all’estremo sud del mondo, in quella sorta di finale che si preferisce non vedere, una specie di caduta del paese verso la fine del mondo? Forse perché dalle letture di Chatwin, Coloane, Sepúlveda, Soriano, Theroux, Giardinelli e tanti altri è nato il mio desiderio di viaggiare, forse perché gli “estremi” attraggono, o forse perché mi sono sempre chiesto cosa c’è “oltre”, come sono le genti di altre terre, cosa c’è ancora più lontano. Forse il luogo dove tutti siamo destinati ad andare.
Per esperienza so bene quanto Massimo Rossi, rispetto al Viaggio, sia caratterizzato da una spiccata tendenza all’indolenza produttiva. Un’ossimoro che nasce dallo stupore di osservarlo per i giorni e le settimane precedenti alla partenza aggirarsi flemmatico e sornione per poi vederlo al momento opportuno produrre piani e percorsi completi e dettagliatissimi. La sorpresa aumenta se da compagni di viaggio si sperimenta la sua capacità di rendere avventurosi i viaggi tranquilli e comodi i viaggi avventurosi, con proposte fuori percorso che aggiungono pepe alle gite troppo rilassate unite al fiuto particolare per trovare punti di ristoro in angoli sperduti o salvare situazioni estreme, tipo drammi sanitari, acqua contaminata, ripari improvvisati, tirando fuori risorse inaspettate.
Lo stesso sentimento permea la scrittura dei suoi reportage-guida come “Etiopia” e “Nepal”. Mesi e mesi di lento lavoro di accumulo di materiale, di ricerca di una chiave di lettura per comunicare agli altri l’essenza di un luogo al di là della mera impressione personale. Così sono nate la sua lunga ricerca etnografica sui popoli degli altipiani aridi del Corno d’Africa e la complessa disamina artistica e architettonica delle città nepalesi sul tetto del mondo. Allo stesso modo è esplosa la ricerca letteraria di “Patagonia”. Come una rosa dell’Atacama, le piante patagoniche che fioriscono all’aria aperta nel giro di poche ore dopo gli acquazzzoni improvvisi nel luogo più arido della terra, questo libro è letterlmente “esploso” da un sostrato di resoconti, diari, libri di avventura, reportage, miti, leggende. Irrorati da un lungo e faticoso lavoro di ricerca e cucitura, sono germogliati in questo piacevole saggio-guida di viaggio.
Raccontandoci di un percorso di alcuni anni fa, l’autore ha l’occasione di presentarci molti dei più noti luoghi della Patagonia Argentina, risalita dall’Estremo Sud, con esplorazioni alle maggiori cittadine, insediamenti, dimore storiche, musei, biblioteche e meraviglie paessagistiche, i maestosi canali e ghiacciai, le montagne, le piane e le saline che caratterizzano questa scabra regione. E per ogni luogo che tocca, il libro riesce a renderlo come uno specchio d’acqua limpido, mostrandoci tutta la vita brulicante passata e presente grazie a incontri con i locali , storie di indigeni, pionieri, missionari, anarchici, aviatori, romantici e assassini, riportate direttamente o attraverso le parole dei tanti autori che per i motivi più vari hanno già raccontato la regione.
Grandi autori come Darwin e Chatwin, Sepùlveda e Coloane, Saint Exupery e a tanti altri a cui Massimo si avvicina con erudizione e intelligenza unite a ironia leggera e spirito critico, raccontando le loro opere, raccontandoli e raccontandosi, facendo emergere un ricco arazzo di connessioni e rimandi, ispirazioni e contrasti, lotte e rifiuti per aggiungere nei secoli il proprio tassello alla narrativa di un’area del mondo assurta a stato mentale, a coscienza letteraria, a metafora e a miraggio.
Quindi il libro ha un suo senso profondo e proficuo nel suo rimandare continuo dalla descrizione e dall’esperienza dei luoghi, dei cimeli, dei cibi, delle persone alla costruzione del Mito letterario e alla molteplicità inesauribile dei modi di riflettere, di raccontare, di godere e di soffrire questa regione. Un’opera di sicuro interesse per amanti della Patagonia e del Viaggio, di valore sia come letteratura, sia come spunto di studio, grazie all’ampia sezione di note e bibliografie, sia come ispirazione per un viaggio, grazie agli itinerari. Pregevole ed esteticamente molto gradevole l’edizione prodotta dall’editore Polaris, peccato solo per l’assenza di un indice analitico e di cartine all’interno.