Nonostante quindici anni trascorsi a Cape Town, questa città – ed ogni luogo, sia esso fisicamente identificabile in un tratto di costa, una collina, un fiume o una città – non ci appartiene ancora. Al contrario, noi, senza alcun dubbio, facciamo parte di essa. È una relazione capovolta, come può accadere, nella vita, quando si incontra una persona a noi molto cara e, ancora, ci si sussurra «lei mi piace davvero».
Ciò si precepisce a Maiden Cove, un angolo dell’Atlantic Seaboard nel quale, immancabilmente, si torna sempre con la curiosità che ci aveva assaliti molti anni fa, quando il mondo australe, i suoi colori metallici, intensi, il fragore di un Oceano inaspettatamente nordico ed i tramonti a picco sull’arenaria della montagna ci avevano, subito, stupiti. Adagiata tra Camps Bay e Clifton, due località costiere a ridosso della grande Cape Town e separate da essa da Signal Hill, una collina dalle curiose sembianze feline, Maiden Cove è il luogo del connubio perfetto, della comunione con la terra, l’acqua ed il vento che ci assale. Non valgono più, di fronte alle onde, al vento impetuoso ed alla terra granitica, gli usuali parametri della realtà terrena: qui ci si trova all’incrocio meridionale del mondo, dove qualche cosa, oltre la linea dell’orizzonte, forse è appena scomparso e non riemergerà più; dove, se ci fermiamo e proviamo a non pensare, ci è dato il privilegio di scorgere il vapore del sogno, l’aria salmastra che si infrange contro i colossi immobili e si trasforma in un luogo difficile da immaginare.
Non si viaggia solo per conoscere. La conoscenza, con il suo passo felpato, sta in trepida attesa di un nostro segnale di invito e ci guarda oltre il semaforo cittadino, su un bus, in coda tra il traffico serale, e ciò accade ovunque, nel mondo, ovunque ci si trovi a camminare – sulle colline di Los Angeles o in un supermercato alla periferia di Milano, in Tasmania o nel salotto di casa nostra. Non si viaggia solo per capire. Nessun vero viaggio ci induce certezza; al contario, pretende da noi l’esercizio ben più faticoso dell’ammissione del dubbio, dell’errore, ci spinge verso il dirupo del vuoto assoluto. Nemmeno, io credo, si viaggia per dimenticare: in viaggio, il dolore di un ricordo ci assale con la forza più crudele mai provata prima e ci trascina indietro, ci riporta ai fantasmi del nostro recente passato; stratifica i ricordi ma non li annulla. Non si viaggia per tornare. Non si torna mai come prima, non deve accadere; il nostro viaggio non è mai un ritorno a noi stessi. Ma l’idea che si possa, viaggiando, accedere al diritto sacrosanto di immaginare, di fantasticare, di avvicinarci all’impensato, questo sì: ciò è l’essenza di un vero viaggio, o di un momento di totale astrazione da noi, dal peso di una riconoscibilità che, talvolta, arreca noia, malumore.
A Maiden Cove, dove la luce di un mattino invernale riflette la sua forza dal granito al cielo e, da qui, alla Montagna, all’erba verde pastello, ai colori degli alberi, noi proviamo a pensare, ancora una volta, al luogo in cui ci troviamo davvero, e se questo incrocio esisterà, tra poco, volgendo lo sguardo altrove. Restano, nascosti dai boulder – i massi monolitici che contornano la costa – minuscoli cottage quasi invisibili, case troppo vicine all’acqua per resistere alla tempesta ma orgogliose, indelebili testimonianze della volontà degli abitanti di voler vivere, nonostante i quattrocento relitti sommersi lungo il tratto di litorale, di fronte all’orizzonte immenso, alla mercè degli elementi naturali che da tempo immemorabile sferzano la costa ed il volto aspro di Table Mountain, la grande madre che sembra abbracciare Cape Town ed i suoi abitanti senza mai chiedere nulla in cambio.
Si avvicina un triciclo. È, pare, un venditore ambulante di gelati. Giunge inatteso, in questo inverno australe, quanto il tintinnio del suo campanaccio che resiste all’urlo pazzo del vento. Lei si chiama Paris, come la città che due giorni fa ha celebrato la propria festa nazionale e ieri, senza vergogna, il trofeo più ambito tra tutti gli sport di massa. Paris spinge lentamente sui pedali, come se avesse nei muscoli la fatica di aver risalito mille volte Camps Bay Drive, una strada cittadina tra le più belle del mondo. Ha il sorriso immenso della nostalgia australe, quella che ti prende alla gola quando osservi, dall’altra parte del mondo, il cielo dell’emisfero Nord. Sa, Paris, che nessuno, oggi, un mattino d’inverno, acquisterà il suo gelato custodito come una gemma. Sorride, nonostante tutto, guardando oltre l’Antartide e quel mondo che nessuno crede davvero abbia un profilo rotondo. Maiden Cove sta evaporando di schiuma marina, come il suo sogno, come i pensieri di Paris fermatasi sul ciglio erboso del prato.