Arriviamo a Cape Agulhas abbondantemente prima del tramonto. Di solito, siamo sempre in ritardo sulla tabella di marcia e dobbiamo ogni volta forzare il finale di tappa per non chiudere la giornata fuori tempo massimo. Sarà così praticamente per tutto il resto del viaggio. Stavolta, invece, la spettacolare strada che da Cape Town ci ha portato all’estremo sud dell’Africa, non ha perso tempo e, tra recinti di pecore e vacche, gazzelle, gru e corvi neri con la canottiera bianca, ci ha presentato al cartello “Welcome to L’Agulhas the southernmost town in Africa” che il sole è ancora alto. C’è tutta un’altra atmosfera rispetto a quella commerciale del turismo di massa di qualche giorno fa a Cape Point. Qui sembrano esserci solo turisti che, come noi, si sono smarriti nel labirinto monotono della vita e vogliono ricominciare da capo la ricerca di una via d’uscita, ripartendo dall’angolo più remoto. Cape Agulhas mantiene quell’aria da eremita solitario e silenzioso, tipica dei luoghi ai confini del mondo: un posto nel mondo ma sul limite di esserne fuori. Non sai mai se quel luogo sia lì perché ha voluto allontanarsi il più possibile dal mondo o se perché stia iniziando da quel capo il viaggio per attraversarlo. Il silenzio di questi luoghi ai confini non lo spiega. E poi i confini su di me esercitano sempre una particolare suggestione, forse perché dentro a certi ristretti confini fisici sono costretto a vivere.
Ai confini del mondo ci si saluta tutti, quasi ad essersi riconosciuti, anche tra turisti, anche tra forestieri: neri e bianchi, belli e brutti, giovani e anziani, cani e gatti, abili in qualche cosa e disabili in qualcos’altro. Ci si saluta con un sorriso o con un cenno del capo o in inglese, ma non ci si intrattiene con nessuno. Un saluto veloce, forse due parole sottovoce, e poi ognuno ad occupare un posto distante dagli altri. I confini della Terra devono essere vissuti in solitudine per lasciare libero il pensiero. Si possono lasciar correre i sogni verso l’infinito che si intravede oltre l’orizzonte, oltre i confini. E se si ha voglia, se si ha una motivazione o anche solo un’illusione, se si hanno scarpe e gambe buone, si può partire. Si può ripartire.
Una ragazza russa dalla carnagione fredda rimprovera il fidanzato che non capisce bene come deve fotografarla, ma nessuno se ne cura, nemmeno i cormorani neri e seri o i gabbiani bianchi e rumorosi. Una coppia di simpatici vecchietti yankees ci dice che ora, dopo Capo Horn e Cape Agulhas, vuole raggiungere il punto più a sud dell’Australia. Stefano sta armeggiando col cavalletto della Reflex per immortalare un sogno venuto da lontano, che proprio da qui e da ora sta per divenire viaggio. Sa che quello è il punto geograficamente più lontano da casa che toccheremo. Di lì in poi si torna.
Io, qualche passo indietro sulla passerella di legno, mi appoggio coi gomiti alla balaustra a fissare la linea orizzontale che il mare disegna sul cielo e capisco che lì davanti c’è l’Antartide, di qua l’Atlantico, dalla parte opposta l’Oceano Indiano e dietro di me l’Africa. Dopo troppi “se” e qualche “ma”, devo solo voltarmi e conquistarmela. Da qui fino all’Equatore. Paradossalmente è qui che inizia il mio viaggio, qui dove l’Africa finisce. Non c’è Africa più giù, è tutta alle mie spalle. Rimango immobile qualche secondo e mi godo questo eterno istante di onnipotenza. So che questo sarà il momento più bello di tutto il viaggio. So che tutto ciò che devo fare ora è respirare profondamente, fino a riempirmi i polmoni dell’aria miscelata dei due oceani, fare mezzo giro su me stesso e partire verso nord, verso l’Equatore. L’emozione è così grande che non mi accorgo che il gomito sinistro, contuso dalla caduta di ieri, mi sta lanciando acuti segnali di dolore. Stefano ha ora il cavalletto in mano e sta tornando verso di me. Raddrizzo la schiena, mi stringo la mano destra al gomito indolenzito e dolorante, inspiro e mi giro. L’Africa è lì, parte da sotto i miei piedi e prosegue sconfinata verso nord. La guardo negli occhi per una frazione di secondo. Lei ammicca. Faccio il primo passo. Gli altri si susseguono incerti, su per la passerella, verso il parcheggio ghiaioso dove Bullbar Livingstone ci sta aspettando pazientemente, in un silenzio rispettoso della sacralità di questo momento. Di lì a poco raggiungo il cartello con la freccia che punta contraria al mio senso di marcia e indica 150 metri al Southermost tip of Africa. Un pezzetto d’Africa l’ho già conquistata.