Originari di Curva e dei villaggi vicini sono i Kallawaya, medici itineranti, guaritori ed erboristi, autentici depositari delle conoscenze della farmacopea andina. Essi stessi si presentano come gli eredi della medicina incaica e, secondo alcuni studiosi, sono stati i primi a usare la corteccia dell’albero di cinchona, da cui si estrae il chinino per curare la malaria, così come la cocaina estratta dalle foglie di coca come anestetico, rimedio poi adottato dalla medicina ufficiale. A conferma del valore della loro cultura, nel 2003 l’UNESCO ha dichiarato la cosmovisione Kallawaya Patrimonio Orale e Intangibile dell’Umanità.
I Kallawaya ritengono che l’infermità derivi dalla rottura dell’armonia dell’uomo con la natura e la guarigione dipenda dal riequilibrio interno con il mondo naturale e soprannaturale. Importante per la guarigione è recuperare l’energia spirituale o ajayu, che in seguito a spaventi, malattie o malefici può abbandonare l’individuo. I Kallawaya provengono da otto comunità intorno a Charazani, dichiarata capitale della medicina tradizionale boliviana. Sono di madrelingua quechua, parlano anche aymara e spagnolo e nel recente passato gli iniziati usavano ancora una lingua segreta, il machay juyai, secondo alcuni quella sacra degli Inca, secondo altri imparentata con la lingua pukina degli Uru.
Questi medici itineranti da tempo immemorabile percorrono a piedi enormi distanze dal Cile all’Argentina e all’Ecuador, con il loro poncho a righe, una croce d’argento sul petto e la borsa di tela piena di erbe curative e di amuleti, assimilando nuove conoscenze e guadagnandosi fama e rispetto. Kallawaya in aymara significa proprio “colui che porta erbe curative” e curiosamente comprende l’intero gruppo etnico. Per diventare vero guaritore il giovane deve, però, impadronirsi della farmacopea naturale e delle pratiche magico-rituali con un apprendistato di diversi anni al seguito di un anziano maestro, generalmente il padre stesso. Le donne, escluse dalla pratica medica, creano raffinatissimi tessuti e lavorano nei campi sostituendo il marito durante i suoi viaggi. Per la diagnosi delle malattie ricorrono anche a tecniche d’arte divinatoria come la decifrazione dei sogni, la lettura delle foglie di coca o del piombo fuso sciolto in acqua o l’esame delle viscere di un porcellino d’India, in precedenza strofinato sul corpo dell’ammalato. La terapia, pur facendo uso anche d’amuleti, è di tipo scientifico o meglio empirico: conoscono e utilizzano più di novecento piante medicinali e rimedi d’origine animale e minerale.
Nel secolo scorso la diffusione della medicina ufficiale e l’insufficiente produzione agricola spinsero molti di loro a emigrare a La Paz, dove si dedicarono al commercio e all’oreficeria, interrompendo la trasmissione orale e il carattere itinerante della loro medicina. Purtroppo questo enorme patrimonio era già stato compromesso e in parte dimenticato perché, nell’immenso genocidio che seguì la Conquista, scomparvero le figure di riferimento, e anche le competenze maturate nei secoli si rivelarono inadatte nella lotta contro malattie nuove e sconosciute, per cui inevitabile fu un maggior ricorso a pratiche più magiche che scientifiche.
Negli anni ’80, grazie a una valorizzazione della cultura indigena e a un rinnovato interesse per le terapie naturali, la medicina tradizionale è stata legalizzata e si sta ora cercando una complementarietà con quella ufficiale perché non vadano disperse conoscenze secolari. È stata creata la SOBOMETRA, Società Boliviana di Medicina Tradizionale, per tramandare la medicina naturale e tradizionale, adoperarsi per il suo riconoscimento istituzionale e proteggerla dallo sfruttamento delle multinazionali farmaceutiche che ne brevettano le conoscenze.