OASI DI NOTTE
Avete mai veduto la notte nel deserto?
Proprio così, perché il deserto è il luogo per vedere la notte. Il buio totale delle notti senza luna, allorché sembra che le rocce, la sabbia, il pietrisco delle hammada ti restituiscano un poco di quella luce assoluta che il sole ha loro ceduto durante quella sterminata sequenza di albe e giornate che dalla creazione si sono susseguite. Alla luna nuova prevale il nero e sul nero, ancora, è il cielo a prevalere, su quell’orizzonte che è più ampio di 180 gradi, giacché proprio come in mare aperto percepisci, esasperi, la rotondità del globo. All’opposto, il bagliore delle notti di plenilunio, il momento della negazione dei colori e delle sfumature intermedie, quando la sabbia par diventare bianca come la neve.
A parte questo, se siete su un monte, una falesia, un qualsiasi rilievo e guardate verso il basso, a valle, difficilmente vedrete qualcosa oltre un nero profondo e disarmante. Non c’è traccia di umanità, là sotto. Soltanto le piste, gialle e polverose, sono interpretabili nella notte senza luna del Sahara. Tracce che risaltano – più che nel giorno – come incisioni nella pelle di dinosauro delle pietraie più omogenee.
Anche avvicinandovi all’oasi non dovete aspettarvi un’accoglienza fastosa, un tripudio di luce elettrica, il bagliore all’orizzonte, dietro la gobba dell’ultimo djebel; la percepirete solo perché l’avete a lungo immaginata, perché sapete che deve esserci, perché è la bussola che vi sta portando là, su una pista sconosciuta che – senza il consenso dell’ago magnetico – potrebbe esser questa come pure la terz’ultima che avete incrociato, tutte con pari dignità, conferita da qualche redjem [segnale occasionale posto a margine di piste o di punti di passaggio importanti – ndr] lasciato da chissà chi per ricordare chissà cosa.
In genere l’oasi non la percepirete dalle luci delle strade, che saranno quasi tutte buie, come bui sono i cortili delle abitazioni: l’oasi sembra sempre sospesa per aria, infatti talvolta la si legge nel cielo – e da gran distanza – per la lucetta/faro per gli aerei, rossa, posta sulla cuspide di una qualche antenna radio. L’oasi è modesta ed è serena nella propria sobrietà, che non ha necessità di esibire. Perché per definizione la sobrietà non è un qualcosa da ostentare, sarebbe una contraddizione in termini. Al sud solo qualche grande oasi si azzarda ad avere magari tutta la notte qualche luce accesa, che so, sulla strada di ingresso principale, di certo il distributore di carburante.
L’ingenuo orgoglio identitario di queste comunità si esprime talora in pretenziosi portali d’ingresso alla città, simboliche arcate trionfali illuminate, memorie di una visione della storia che noi non immaginiamo, la storia vista dalla prospettiva opposta alla nostra. Di giorno incontrerete prima la periferia, vecchie zeribe di mattoni cotti al sole o di frasche di palma, baracche di lamiera alternate a moderni edifici in cemento e laterizio, a un piano ma sempre pronti a crescere in altezza, se son vere le aspettative denunciate con intraprendenza dai tondini di armatura del cemento armato che svettano rugginosi dalle facciate come tecnologici cesti impagliati. Su queste pareti, su questi impalcati, vedrete moltiplicarsi le antenne paraboliche. Di giorno. Di notte, al sud, c’è buio.
Poi le lucette verdi poste a corona intorno alla cupola del minareto della moschea. Il verde del Profeta, ma fievole, un verde pacato, ricorda il verde della luce del cruscotto, che hai abbassata al minimo per non distrarti nella guida notturna, tanto sai esattamente di quanto carburante disponi; e la velocità non è certo un problema.
È una realtà che vive con la luce del sole, l’oasi, difficile vedere qualcuno al lavoro nelle ore tarde della sera, nemmeno le officine, a meno che non ci sia dentro qualche auto europea in panne. Abbiamo sempre qualche scadenza, noi, qualche motivo per aver fretta, sia un traghetto o chissà che cosa. C’è sempre qualcosa che ci costringe ad andare, qualcosa che non possiamo perdere. Avremo mai vinto qualcosa?
Non serve molta energia elettrica, di notte, nell’oasi.
L’oasi rappresenta – rispetto alla città – l’origine, come essenza, non il prototipo. Il rigore del nomade appena stemperato dal sobrio agio di capanne e zeribe men che precarie.
La città è un’altra cosa. Un amico berbero, non a torto, l’ha definita un concetto estetico della socialità. È una definizione molto aperta che può darci una chiave di lettura assai intuitiva di quelli che sono i valori in gioco all’interno di una qualsiasi società umana. La città ti dichiara pressoché senza inganni – sempre che tu voglia leggerne correttamente il linguaggio – quelle che sono le caratteristiche della collettività che l’ha creata o che comunque la abita. Quali le aspettative, quali le paure. La città è un tema che spesso ricorre nelle esercitazioni retoriche, semantiche, dei nostri intellettuali, degli urbanisti e dei sociologi, coloro che sul tema dovrebbero essere i più qualificati. La città è argomento anche di soggetti che, per nascita e cultura, per proprio percorso di vita, parrebbero avere poca voce in capitolo. Stando ai nostri parametri. Ma loro, al contrario, ne hanno parlato eccome, e scritto, riferendosi al loro – di vissuto – e alla loro – di terra – prescindendo dai giudizi e dalle opinioni altrui.