Andare in Alaska non è un viaggio come un altro, ma è un vero e proprio salto nell’altrove. L’Alaska, un luogo che nell’immaginario di molti non è niente altro che ghiaccio e freddo, è invece una terra sorprendente, piena di vita, di profumi e di colori. Quelli dei ghiacciai prima di tutto, come l’Hubbard Glacier e il Matanuska, che virano dal bianco, all’azzurro tenue, al blu più intenso seguendo meravigliosi giochi di luce, e quelli della natura, che spazia dal verde brillante al magenta vivace dei campi di fireweed, l’erba del fuoco, che predilige i terreni bruciati dalle fiamme per crescere rigogliosa e folta e che, quando va a seme, segnala agli alaskani che mancano esattamente sei settimane alla fine dell’estate. In questa terra si ascoltano ancora le indicazioni della natura e si seguono i suoi ritmi, invece che prevaricarli; ecco allora che un fiore come il fireweed può dettare le tempistiche per iniziare i lavori di sistemazione e rinforzo del manto stradale per prepararsi all’arrivo dell’inverno.
Questo legame ancora genuino e forte con la natura permette di ritrovare una parte di noi che, nella nostra quotidianità fatta di corse e rincorse, spesso seppelliamo sotto strati di doveri e incombenze. Così è stato per me che, mentre percorrevo le lunghe strade alaskane senza quasi mai incontrare nessuno, ad un certo punto ho iniziato a fare un viaggio parallelo a quello che avevo organizzato mesi prima a casa, un viaggio dentro me stessa, un confronto genuino e sincero con la parte più recondita di me. Per questo non mi stupisco che Chris Mc Candless, meglio conosciuto come Alexander Supertramp, il protagonista di “Into the wild”, abbia concluso il suo viaggio proprio in Alaska, nel Denali NP. Non potrò mai sapere se, prima di morire proprio lì, avesse trovato quello che stava cercando ma, mentre passavo davanti al Teklanika River, che è stata la sua ultima casa, ho pensato che non potesse scegliere luogo migliore per sperimentare un’esistenza più autentica in solitudine e completamente immerso nella natura. Perché è davvero così che ci sente in Alaska, piccolissimi di fronte all’immensità di una natura che ancora riveste un ruolo da protagonista.
Prima di andare in Alaska non mi era mai capitato di immergermi in spazi così immensi e maestosi. In Europa le foreste sono aree sempre più piccole e mangiate dalle città, aree talmente antropizzate che è difficile trovare spazi incontaminati; l’uomo è dovunque e, anche quando non è presente in carne e ossa, si trovano comunque tracce del suo passaggio. Lo stesso vale per altri posti del mondo che ho visitato, selvaggi ed enormi nella mia idea, piccoli e devastati nella realtà (questo ad esempio è ciò che ho trovato nel Borneo, trasformato da giungla fitta a distesa di piantagioni di palma da olio).
Quando si dice che in Alaska è quasi più facile incontrare un orso che un essere umano, be’, si dice qualcosa di vero. Io sono partita per questa terra lontana proprio alla ricerca degli orsi, animali che mi affascinano fin da quando ero bambina e mi addormentavo con il classico orsetto di peluche di fianco. Di orsi ce ne sono davvero molti, sia orsi neri, che orsi bruni, che grizzly. Molti sono gli incontri che mi sono portata a casa e che mi rimarranno sempre nel cuore, a partire dal primo orso alaskano che ho incontrato girando a piedi nella Tongass Forest, accompagnata da un ragazzo armato di fucile, condizione indispensabile per potersi addentrare in questa foresta proprio a causa dell’alto numero di plantigradi che la abitano, fino ad arrivare alla mamma orsa con i due cuccioli nel Denali NP (parco in cui è praticamente impossibile non vederne, dato che qui vivono circa 350 esemplari). E non sono solo gli orsi a popolare queste terre: alci, caribù, capre bianche, volpi rossi, castori, buoi muschiati, aquile, lupi, foche, leoni marini e balene sono incontri che gli amanti degli animali possono facilmente fare nella wild Alaska.
Spiare i castori che costruiscono freneticamente le loro dighe, osservare gli orsi mentre si tuffano nella corrente del fiume per pescare i salmoni, dover cedere il passaggio ad un alce sulle strade centrali di Fairbanks e ascoltare il respiro delle balene sono solo alcune delle emozionanti esperienze che offre un viaggio in Alaska.
Anche gli incontri con gli alaskani, nonostante siano quasi più rari, sono interessanti. La popolazione dell’Alaska, infatti, anche se molto scarsa (740.000 abitanti circa) è davvero eterogenea. Girando per l’Alaska, quindi, capita di incontrare segni del passaggio degli Athabascan e dei Tlingit, nativi di questi luoghi, o discendenti dei russi, che prima degli americani sono stati i proprietari di queste terre. Capita di chiacchierare con un ragazzo di Juneau, capitale dello Stato, che si lamenta dell’isolamento di questa e delle altre cittadine del Panhandle, dove in effetti non ci sono praticamente strade e si può arrivare solo via mare o con un aereo, e con una donna dell’Interior, che abita in un paesino di 12 anime in mezzo al nulla con i suoi cani da slitta ma non vorrebbe vivere in nessun’altra parte del mondo. Capita di imbattersi negli affascinanti racconti di chi vive nell’estremo nord, a Barrow ad esempio, dove anche la sepoltura dei defunti può essere un problema, data la coltre di ghiaccio che ricopre perennemente il terreno, e di chi, non alaskano di origine, ha mollato tutto per trasferirsi in una casetta essenziale in Alaska, dimenticando una vita precedente fatta di comodità e agi per tornare alle origini e a cacciare e pescare per nutrirsi.
Insomma, l’Alaska è fatta così: o la si ama o la si odia. Io me ne sono innamorata completamente e sfido chiunque ci vada a non fare lo stesso!